[a cura di N. Lorenzini, Garzanti, Milano 2009]
L’«Elefante» Garzanti curato da Niva Lorenzini non si limita a colmare una lacuna editoriale difficilmente comprensibile – data la statura poetica di Antonio Porta e la sua influenza sulla produzione italiana delle generazioni successive – rendendo disponibili tutte le poesie pubblicate in vita dall’autore, e in più i due emblematici testi postumi La posizione fetale e Poemetto con la madre; non solo, secondo tradizione della collana, offre una vasta antologia di pagine critiche (guida di lettura e compendio di storia della ricezione) disposte cronologicamente lungo più di un quarantennio, da quelle illuminanti e sottilmente iussivo-contrastive di Giuliani e Sanguineti (1961 e 1964) fino a quelle, datate 2004, di uno studioso giovane come Gian Maria Annovi; e non solo, infine, contiene un’utilissima nota al testo che ricostruisce i percorsi bibliografici dei versi portiani prima dell’ingresso in volume – notizie preziose soprattutto per le prime due sillogi, I rapporti e Cara, e finora disperse qua e là in contributi specialistici.
Non soltanto, dunque, il collettore si propone come un punto d’arrivo, strumento insostituibile per gli studiosi e insieme oggetto di diffusione – si spera – tra i lettori di poesia, ma vuole anche, a partire dall’introduzione della curatrice, funzionare da campo- base per nuovi lavori e nuove randonnées. I testi riuniti infatti rendono più evidente la necessità di scandagli formali e tipologici, a livello microtestuale – i “procedimenti” portiani e la sua metrica necessitano ancora di approfondimenti – e macrotestuale – se sui Rapporti qualcosa è stato fatto, a partire da Cara i legami tra le sezioni e la composizione generale delle cornici sono tutte da indagare. Ma insieme a questo il volume spinge a cercare ipotesi di lettura forti che permettano, se non di dirimere, di ripercorrere su tracce diverse alcune questioni fondamentali, e soprattutto quella riguardante la continuità o discontinuità dell’opera in questione.
Scontata ormai l’infondatezza di postulare rottura radicale, e verificata alla rilettura la sostanziale persistenza di molecole e figure dell’immaginario portiano – tanto che non sarebbe difficile descrivere l’autore sulla falsariga di una storia dell’uovo, dell’occhio, della bocca, o disporne la traiettoria poetica nei capitoli di un manuale di idraulica, di contenimento/ liberazione di fluidi – diventa di grande importanza capire come si sposta il concetto di questo immaginario, e come tale riposizionamento riverberi sul già scritto.
Insomma se è vero, come sostiene in maniera persuasiva Cortellessa, che Porta è sempre quello che apre e quello che chiude, il giardiniere e il becchino, a cambiare molto nel corso del tempo è il carattere di questo nesso, che fino a un certo punto può valere come sintesi disgiuntiva, operante all’avvicinamento, senza garanzie, di un livello di completa pienezza e distruzione assoluta (Reale? Corpo senza organi? Piano d’immanenza?), e da un certo momento in avanti invece scade, dal mio punto di vista, a composizione mitico-immaginaria in cui distruzione, lacerazione, morte vengono ricompresi in una grande Vicenda e in un Disegno nascosto; magari quello della Vita, con la maiuscola. È chiaro che il punto di biforcazione dell’alternativa, stante la natura “autointerpretante” della poesia portiana, può essere individuato dappertutto, e che quindi diventa vano cercarlo e bisogna arrangiarsi con un’ipotesi di “monismo” allargato; ma altrettanto chiaramente il problema che deve porsi la critica sta su un altro piano.
Un piano su cui non si tratta più di “accertare” né di interpretare, ma di sperimentare; nel caso di Porta sperimentare in che modo, con quali torsioni e forzature, conservando cosa e cosa abbandonando, la sua poesia possa servire come sprone e non come anestetico, nei decenni in cui l’immaginario è diventato una pandemica malattia del sonno liberamente circolante nelle reti, elettriche e neurali, del “capitale umano cognitivo”.
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